Etty Hillesum

Un cuore temprato, non indurito

Etty Hillesum è una giovane ragazza olandese, morta ad Auschwitz nel 1943 (per  maggiori informazioni vedi nel sito https://www.lucianabreggia.it/la-spiritualita/#ritratto), che ci ha lasciato un prezioso Diario, tenuto dal 1941 al 1943. Qui, un giorno, aveva annotato: “Temprato, distinguerlo da indurito”.

E’ una distinzione su cui si può lavorare.

Nei dizionari quando si parla di ‘temprato’ in senso figurato, il termine è sempre accostato a qualcosa che ti mette alla prova: la fatica, la sofferenza, le difficoltà. Qualcosa che potrebbe anche farti indurire, chiudere in una compattezza non scalfibile, magari rassicurante.

Un cuore indurito non è permeabile, è un blocco che non assorbe più nulla.

Un cuore temprato è come quello dell’immagine, che permette all’acqua di solcarlo, lasciare segni, cicatrici. Così può divenire saldo, fortificarsi senza indurirsi.

Il centro interiore da cui viene regolata la mia vita – scrive Etty il 9 gennaio del 1942 – sta diventando sempre più forte e cardinale…irraggia il suo influsso fino alle più lontane periferie”.

Ho sempre pensato che la vicinanza che Etty propone a chi la conosce attraverso i suoi scritti nasca dal fatto che lei condivide la sua ricerca, più che il risultato. Allora è possibile seguirla, perché è possibile cercare di apprendere il suo metodo.

Così, ad esempio, si può dire che Etty non è forte, lo diviene. Etty sperimenta varie strade per questo processo di fortificazione, che tuttavia hanno un centro preciso: quello di rendere sempre conto a se stessa di ogni esperienza, di ogni stato d’animo.

Attraversando le sue fragilità, accettando le sue contraddizioni, finché queste non si ostacolano più l’un l’altra, non si sottraggono vita l’un l’altra. Per crescere, scrive il 9 settembre del 1941, “la strada deve essere occupata da innalzamenti e fortificazioni, dal contrasto e da un po’ di lotta”.

E ancora, “Il verbo ausklingen (smorzare) non è la soluzione di ogni cosa. A volte la pena può, in quel modo, sciogliersi in tonalità più lievi, ma per armonizzare mille note dissonanti non basta lasciar smorzare tutto: bisogna attuare un altro procedimento”.

E quale, ci chiediamo? L’unico modo, dirà più avanti, è accettare le contraddizioni, vivere la molteplicità delle cose e non cercare spasmodicamente di forgiare quella molteplicità in un’unità.

E’ venerdì mattina, il 3 ottobre 1941, quando  scrive: “Sono fatta così, finisco per essere esposta ad ogni cosa. Sono aperta a tutto e non mi sottraggo, mi abbandono a tutte le tempeste, a tutti i venti, a tutti gli stimoli esterni e a tutto ciò che spira dal profondo del mio essere. Non mi risparmio, credo. A volte penso che sia troppo dura e che sono io a rendermi la vita troppo difficile, perché lascio che ogni minima impressione venga rielaborata e compresa, ma poi avverto un senso di gratitudine per essere fatta così, uno strumento tanto sensibile che nessun aspetto della vita interiore o di quella esterna mi è estraneo, né mai lo sarà”.

Ed è questo paziente lavoro su se stessa che le permette di comprendere gli altri, le loro contraddizioni e fragilità. Come scriveva Publio Terenzio Afro (165 c.C.) : Homo sum, nihil humani a me alienum puto. Sono un essere umano. Niente di umano mi è estraneo.

Etty lavora con le parole, intensamente. Ad esempio, trascrive nel Diario alcune parole come “Salda, costante, paziente”. Poi le riprende dopo qualche mese, il 29 marzo 1942, annotando che avevano cominciato davvero a vivere davvero in lei.

E’ il 6 giugno del 1942, c’è il sole e pela le patate, mentre sente come ormai ci sia un tono dominante in lei, si stia sviluppando una sua melodia, a cui deve dare la possibilità di crescere e tanto spazio, e alla quale essere fedele.

Lavorando in modo perseverante a se stessa, riesce a  trovare il cantus firmus, la melodia che è la base di quella composizione polifonica che è stata la sua vita.

E a guardare questa pietra a forma di cuore, così scavata dall’acqua e dal vento, con queste ferite scure e lo scintillio provocato dal riverbero del sole, mi pare di sentirla la sua vita, così esposta ad ogni cosa, così spezzata eppure ancora salda, custode dell’essenziale; “dovunque ci troveremo, annota poco prima della partenza per il campo di Westerbork, dobbiamo esserci con tutto il nostro cuore”.

Può essere un’indicazione anche per noi? Per vivere questo tempo così faticoso e, a volte, amaro?

 

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